Whoosh! Il nuovo disco dei DEEP PURPLE.
È nel segno di Madre Natura che i Deep Purple sembrano trovare nuova linfa vitale e la giusta dose di energia per concepire il loro ventunesimo album.
Whoosh! è oggettivamente uno dei migliori album realizzati da Ian Gillan (il cantante della band) e soci i quali, nonostante abbiano varcato mari in tempesta (come mostra il video di “The Surprising” del disco precedente “Infinite”) nel corso di sette decadi di musica e cambiamenti di formazione, in questa MK 8 hanno realizzato un concept album di consapevole freschezza musicale i cui testi, decisamente più impegnati del solito, fotografano, attraverso metafore e stratagemmi, lo stato di precarietà che sta vivendo il nostro pianeta a causa dei cambiamenti climatici.
Analizziamo il disco “Step by Step”:
Si parte con Throw My Bones. Immediata.
Riff tagliente, ritmica incisiva e corposa, sopra un’orchestrazione barocca di uno straripante Don Airey (il tastierista), decisamente a suo agio e libero di sperimentare (ad esempio, in questo brano, sembra non esserci l’Hammond, marchio di fabbrica della band e del compianto Jon Lord, per dare spazio a tastiere e orchestra).
La melodia e il testo accattivanti rimangono impressi a lungo.
Del resto, come dice lo stesso Gillan, “All I’ve got is what I need”. Il paradiso può attendere.
Si continua con Drop The Weapon. Interessantissima traccia che parte con un riff in stile “Beat It” di Michael Jackson per poi sfornare un inciso in 6/8 in perfetta linea con le ultime produzioni.
Ed ecco sontuoso il magico Hammond che “grida” note su note interlacciandosi con il funambolico Steve Morse (alla chitarra elettrica) che continua a mantenere un basso profilo, nonostante, ascolto dopo ascolto, emergano diverse perle esecutive.
Il testo è un’esortazione ad abbandonare le armi e la violenza per stringere, finalmente, un patto “peace and love”.
Gillan ha tratto ispirazione anche dagli ultimi fatti avvenuti in San Francisco.
Terza traccia del disco: We Are The Same In The Dark.
Probabilmente il brano più AOR style del disco, ricorda nell’intenzione Wrong Man ( dall’album Rapture Of The Deep del 2005). Anche qui il messaggio è molto chiaro.
Come nella poesia di Totò, principe De Curtis (‘A Livella) saremo tutti gli stessi, un giorno, nell’oscurità.
Segue Nothing At All. Parte in quarta, anzi in terzine la ballad “atipica” del disco.
Anche qui si possono apprezzare i tappeti corali ai quali si è aggiunta la stessa voce di Bob Ezrin (il produttore del disco).
Steve Morse con le sue scale apre la pista ad un solo d’organo tanto enigmatico quanto progressivo del nostro Don, impossessatosi dello spirito di Bach.
Sezione ritmica perfetta e mai invadente.
Gillan, parlando con se stesso, ci suggerisce attraverso delle metafore che, se vogliamo continuare a far sorridere “the Old Lady” (madre Natura), dovremo imparare a rispettarla, perché l’oscurità è dietro l’angolo.
Si ingrana la marcia veloce con No Need To Shout.
Ruggito d’organo e parte il riffone in “Stormbringer style”. Massiccio lavoro di Glover, sostenuto da Paice in grande spolvero. Torna a ruggire pure la chitarra di Morse, in uno di quei soli che abbiamo imparato ad apprezzare dal suo ingresso nel mondo porpora. La scelta del piano rende il tutto un po’ “rock ‘n’ roll”, probabilmente togliendo un po’ di cattiveria al brano. Del resto, non c’è bisogno di urlare, come scrive big Ian, riferendosi probabilmente ai polititici da strapazzo dei giorni odierni.
Ed è nel “mezzo del cammin” del nostro ascolto che ci imbattiamo in Step By Step.
Signori, This Is Don Airey.
Un’introduzione di organo e piano degna dei migliori arrangiamenti per Ozzy Osbourne (con il quale Airey ha collaborato in passato) e ritorna per un attimo l’atmosfera dark e farsesca che avevamo imparato ad apprezzare in Vincent Price (da Now What!?). Il tempo irregolare impreziosisce il ritmo scandito da Ian Paice, preciso e geniale nei passaggi come sempre. Sicuramente uno dei momenti epici del disco, dove i testi determinano appunto l’atmosfera decadente, come la danza degli scheletri di Walt Disney.
Si aprono le danze con What The What.
Avevamo accennato al rock ‘n’ roll…signori, il piatto è servito.
Un omaggio a Little Richards & company, dove Gillan naviga pienamente a suo agio (qualche anno fa è uscito il suo secondo disco revival con la sua prima band, i Javelins). Il tutto condito in salsa purple…
il testo ironizza sull’invito a cena di Bob che voleva celebrare il fatto che fossero tutti vivi per intraprendere questa nuova avventura.
L’ottava meraviglia: The Long Way Round.
Probabilmente la summa dei Deep Purple dell’era Morse.
Una cavalcata ritmica dove si susseguono i fraseggi e le botte e risposte tra chitarra e organo.
Credo il brano più articolato del disco.
E, leggendo il testo mentre lo si ascolta (credo a tratti autobiografico) un brivido mi percorre la schiena. Quante volte abbiamo preso la strada più tortuosa, coinvolti dall’istinto piuttosto che dalla ragione? Ma siamo ancora qui, a raccontarlo.
La nona dei Deep. The Power Of The Moon.
Reminiscenze “floydiane” oppure la stella di David (Bowie) ha illuminato il cammino nel viaggio musicale di questa traccia ?
Batteria lineare, intrisa come sempre di ghost note nel rullante e linea di basso melodica ed imprescindibile.
Morse ed Airey duettano in maniera astronomica, mentre Ian tesse divinamente le lodi della Luna, con il suo potere di alzare le maree e di condizionare le nostre decisioni.
Il giusto elogio al “white side of the moon”.
Si volge quasi al termine con Remission Possible, primo strumentale del disco.
“Uno dei pezzi più folli di chitarra” che abbiamo mai sentito anche noi (citando Gillan). Resta l’amaro in bocca per la sua breve durata. L’impressione è che si voglia omaggiare il primo periodo porpora, dove l’hard rock incontrava spesso il prog…i fantasmi del passato cominciano ad aleggiare… ed aprono il varco alla successiva Man Alive.
Quel ticchettio che scandisce “hic et nunc” l’incipit del brano la dice lunga sull’importanza di un grande produttore come Bob Ezrin.
Il dettaglio che fa la differenza. Stupefacente tappeto di armonie e suoni di Don Airey, sul quale Big Ian introduce con delle parti vocali sublimi la tematica apocalittica del ritorno alla preistoria.
Un solo uomo è rimasto vivo dopo la purificazione o meglio epurazione dalla terra. Così recita Gillan, con spirito Morrisoniano, restituendo (a mio parere) la Child In Time dei nostri tempi (non parlo dello “screaming” ma del testo).
And The Address. La chiusura del cerchio.
Il primo brano registrato dai Deep Purple (all’epoca Mark1) e adesso ripreso con un piglio più moderno ma molto rispettoso dell’originale.
I fantasmi si materializzano, e nei crediti si leggono piacevolmente i nomi di Ritchie Blackmore e Jon Lord, membri fondatori, insieme a Ian Paice (unico del gruppo ad aver suonato in tutti gli album).
Sarà una mia impressione, ma all’inizio dell’ultima battuta, Paicey rallenta leggermente, lasciandomi immaginare, da come lo conosco, che non vedeva l’ora di chiudere il capitolo nostalgia e continuare a guardare avanti.
Dancing In My Sleep lascia la porta aperta al futuro.
Si guarda decisamente oltre con questa traccia che parte con un synth elettronico per poi incedere con una ritmica possente funk rock. Sicuramente il brano più innovativo dell’album, che dimostra lo spirito sornione e giovanile della band. Fresco, piacevole, intenso. E Mr. Gillan stavolta impossessatosi dello spirito di Jerry Lewis che balla al ritmo dei sogni.
In data odierna i Deep Purple, con WHOOSH!, sono primi in classifica o nella top ten in diversi stati del mondo.
Non succedeva da quarant’anni (quando uscì un loro best of, Deepest Purple). Essere oggettivi nel recensire questo album, per me, è onestamente difficile, dato l’affetto e l’amicizia che mi lega alla band. Ma reputerei assolutamente indecoroso non considerare questo lavoro un pietra preziosa in un panorama musicale decisamente povero.
Il disco rientra nella trilogia che, dal 2013, ha visto i pionieri dell’heavy metal o (come loro stessi amano definirsi) gli operai del rock lavorare con Bob Ezrin.
Tre album, NOW WHAT!?, INFINITE, WHOOSH! che, contestualizzando la nostra epoca, hanno poco da invidiare alla più famosa e giustamente mitizzata trilogia dei settanta (IN ROCK, FIREBALL, MACHINE HEAD).
Non possiamo che augurare lunga vita ai Deep Purple…nel 2020 c’è ancora bisogno della loro musica, del loro messaggio.