(Petya, na moyata Petya, 2021)
Nell’ambito della quindicesima edizione Festival del cinema bulgaro, ospitato alla Casa del Cinema di Roma, tra i film in programmazione uno ha fatto breccia particolarmente, depositandosi in fondo all’anima: Petya of my Petya (Petya na moyata Petya), del regista Alexander Kossev. Ispirato dal personaggio dell’amata poetessa bulgara Petya Dubarova, morta suicida a soli 17 anni, il film ha, innanzitutto, il grande merito di portare al pubblico internazionale una vena poetica matura e leggera, troppo presto abbandonata, a suo e nostro svantaggio. Nell’impossibilità di spiegare l’inesplicabile gesto di un’adolescente dotata di una sensibilità e di un talento fuori dall’ordinario, il regista sceglie una narrazione parallela e onirica attraverso lo sguardo di una sedicenne omonima, Petya Monova. Intelligente, acuta, gioiosamente attiva, Petya sembra seguire le inclinazioni letterarie, la visione penetrante sul mondo e, ad un certo momento, il triste destino della sua poetessa del cuore. Il racconto di Kossev è preciso nei dettagli di un’adolescenza in cui si mescolano il candore e la speranza con la disillusione e l’amarezza.
Per gli adulti che popolano il mondo di Petya la narrazione non fa sconti, ne tratteggia, in una fitta trama di flashback, le manie di controllo e repressione di quelle pulsioni tipiche di chi ha fame di amare, di vivere, di credere, soprattutto. Rimarcando l’osservatorio personalissimo di Petya, del tutto o niente, del subito o mai, il regista proietta in un sottile attrito generazionale, che cresce di situazione in situazione e che esplode inevitabilmente in un dramma preannunciato. C’è l’incapacità della giovinezza di accettare le debolezze di quelli che dalla nascita si ritengono inattaccabili per valore e statura: Petya che non accetta il divorzio dei genitori e si rivolge al padre con la frase “Quindi una settimana fai il genitore e l’altra sei single”, rivendicando il bisogno della propria centralità e unicità nella famiglia. E quell’urgenza assoluta che non comprende, che non vuole dilatare i confini, ma a sua volta esige di controllare e contenere quelli che ama in un cerchio ristretto di sicurezze.
Tra i personaggi di questa piccola ma intensa storia, la figura dell’insegnante di lettere si pone come un lenimento all’anima incerta e fragile dei ragazzi, che in alcuni frammenti sembra ricalcare la narrazione di Virzì in Ovosodo. L’attrice Albena Pavlova ne incarna un’essenza di grande forza e delicatezza, quell’umana comprensione e partecipazione rivolta agli altri, che tutti vorremmo in una classe di liceo. Lei stessa ingannata da burocrazia e arrivismo, ma incapace di tirarsi indietro, nonostante tutto, di fronte al dolore manifesto di una ragazzina. E’ bruciante il dolore di Petya. E il peso dell’inganno di cui si sente vittima da parte di quegli adulti immobili e silenziosi, incapaci di renderla partecipe dei propri sentimenti e debolezze, la ottunde al punto di non rendersi conto che anche con i suoi coetanei ci sono punti oscuri.
Amici del sempre e per sempre, quasi innamorati, ma restii a dirsi davvero quello che provano, almeno non guardandosi negli occhi, ricorrendo, semmai, a stratagemmi mediante i social. La vicinanza perpetua e la distanza dalle emozioni che ogni ragazzo vive in quest’epoca, è evidente, assodata, riecheggia l’inganno dei grandi e forse proprio questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Nel biglietto lasciato dalla Dubarova prima di morire la parola inganno si allinea con gioventù, perdono, sonno, ricordo e segreto. Dove segreto è scritto in maiuscolo, quasi a lasciar arrovellare con una punta di sadismo, chi lasciava indietro a piangerne la scomparsa. Una morte per emulazione di un dolore fatto proprio, o un’occasione di accettare i limiti propri dell’essere umano e imparare come diventare adulti?
Il destino è in mano di ciascuno e, pur senza voler fare filosofia spicciola, possiamo concludere citando le parole della Petya poetessa: “Siete voi, che leggete le mie parole, a dagli un senso o un altro: dipende da come volete immaginarmi”.
Anna Crudo