Noi cronisti e amanti del teatro siamo sempre a caccia di sorprese e non di radio speriamo di scoprire qualcuno che ci entusiasmi con l’ambizione di poterlo veder crescere, consolidarsi e confermare le intuizioni che contiamo di aver avute per primi. Ci piacerebbe poter dire “io l’avevo detto”! A volte succede e a volte no: a volte siamo perplessi che succeda e a volte siamo basiti che non succeda. Di certo se troviamo un autore o un regista o un attore o un gruppo che ci ha colpiti positivamente, cominciamo a seguirlo anche per capire se trattasi di “spettacolo azzeccato” o di effettivo, replicabile talento. Ormai molti anni fa, ci siamo imbattuti in un teatrante a 360 gradi, che scrivendo, recitando e dirigendo, porta sui palcoscenici italiani una grinta e una abilità poliedrica fuori dal comune. E’ Patrizio Cigliano – di cui abbiamo già scritto più volte – che con felice sorpresa (condivisa, leggendo i tanti articoli su di lui) non ci ha mai delusi, facendoci vedere sempre qualcosa di diverso. L’abbiamo visto passare dallo struggente, bellissimo “a cuore aperto” (anche testo e regia, portato anche in scena a New York e Parigi), allo straziante Amleto nel suo incredibile “Hamlet Project” (che fine ha fatto quello strepitoso spettacolo?), al tonante Teseo in “Fedra”, al sorprendentemente canterino Mandrake nel Musical “Febbre da Cavallo”, al commovente Primo Levi di “se questo è un uomo”, al cinico e lungimirante Lord Hastings di “Riccardo III”. E ora, in questo febbraio romano, lo ritroviamo regista in due teatri off. Ferma restando tra i nostri maggiori interrogativi teatrali l’incredulità che un simile teatrante non compaia spesso nei cartelloni dei grandi teatri (sia come attore, che autore, che regista), dobbiamo continuare a stupirci delle sue capacità. Perché anche con queste due regie, di testi non suoi, ha centrato il bersaglio. Stiamo parlando di “Una Poltrona per Giulia” e di “Cantigola”. I due spettacoli erano in contemporanea romana per pochi giorni e vedere due sue regie così ravvicinate ci incuriosiva moltissimo. Anche con una certa diffidenza: temevamo di trovare troppe similitudini. Ma entriamo nel merito:
“Una Poltrona per Giulia” è il tipico esempio di spettacolo di prosa fondato sulla regia. Il testo di Marina Pizzi forse potrebbe suscitare poco interesse, parlando per lo più di dinamiche lavorative da multinazionale, davvero poco coinvolgenti, ma l’apporto massiccio di regia, intendendo per regia il totale della messa in scena, della direzione degli attori, delle luci, delle musiche e della scelta di scene e costumi, ha trasformato la pericolosa insidia dell’argomento, in uno spettacolo piacevolissimo, pieno di idee, divertente e persino di riflessione. Gli attori scelti sono tutti di un livello che non sempre si vede anche nei teatri ufficiali, evidentemente scelti con sapienza e diretti in maniera visibilmente chiara. La storia è semplice: una donna in carriera (Giulia), a capo di una super-azienda dedita al traffico internazionale di Container, strapazza con perfidia tutti i suoi impiegati, ordendo scalate di ruolo, esercizi di sguaiato potere, mostrando il lato peggiore di certe “donne in carriera”, forte di essere l’intoccabile vertice del CdA. Ma la locandina recita “cosa sei disposto a diventare, per fare carriera?” e così tutti i personaggi rivelano doppie personalità, dimostrandosi squallidamente ipocriti, calcolatori e disposti a tutto, pur di farsi le scarpe l’un l’altro. Ma anche questo potrebbe risultare banale e prevedibile, così ecco che la regia dà allo spettacolo un ritmo vertiginoso e colora tutti i personaggi in maniera forte, trasformandoli in prototipi di falsità estrema. Tutti. Ma ce ne accorgiamo piano piano, perché lo spettacolo è anche avvedutamente comico, di una comicità affidata non tanto alle battute, quanto alle situazioni e alle caratterizzazioni dei personaggi, che si fanno seguire con piacere per tutto lo spettacolo. Tutto inizia con una prima significativa trovata registica: il cast dà vita ad una ripetitiva coreografia su musica martellante: sono tutti robot obbligati a rifare gli stessi movimenti in eterno. Ed è l’incipit da cui si sviluppa tutto lo spettacolo. Il cast, come detto, è eccellente: Giulia è Beatrice Fazi, che rappresenta una sorpresa nella sorpresa. La conosciamo per la sua simpatia televisiva (la filippina di un medico in famiglia) e per la sua vis comica (spesso napoletana), apprezzata in diversi spettacoli tra cui il pregevole “5 donne del sud”, e nella fortunata saga delle “Stremate” (5 esilaranti spettacoli a tema femminile scritti da Giulia Ricciardi – ma ne abbiamo visti solo tre – misteriosamente usciti dalle programmazioni dei teatri nonostante 5 anni consecutivi di raro successo ai botteghini di tutti i teatri in cui sono stati presentati… è proprio vero che in Italia non si sa fare “progettualità” teatrale: era un vero e proprio format che poteva durare anni e anni, e che sembrava già pronto per diventare una serie televisiva!). Avevamo però l’impressione che la Fazi stentasse a fare personaggi veri e propri, rifugiandosi in un clichet leggero, un po’ ripetitivo in cui si scorgeva sempre prima l’attrice e poi il ruolo. In questo spettacolo invece “fa” l’attrice, e molto bene, rispettando e facendo propri i ritmi imposti dalla regia e le durezze estreme di un personaggio non facile, proprio perché monotematico fin dall’inizio. Invece l’arroganza e il cinismo della Fazi ci sono piaciuti molto, ed sono tra gli elementi che donano interesse alla storia, permettendole di assurgere alla metafora: in fondo, attraverso tutti questi personaggi, si racconta un mondo lavorativo di alto livello, che appare disumanizzato, tronfio, dedito solo al profitto e privo di ogni compartecipazione emotiva. E questo effettivamente vale per moltissimi ambienti professionali. Così i personaggi sono del tutto privi di empatia reale, ma colmi di simpatia apparente e gentilezze plateali, immediatamente cancellate non appena gli si voltano le spalle. Molto efficace la scelta di ricorrere ai dialetti per cercare una comunicazione con il pubblico che – dato l’argomento, pieno anche di complicati termini tecnici – poteva venir meno e che ha permesso a Nicolò Scarparo di disegnare ah hoc con tratti mefistofelici e in veneto un direttore spietato, mellifluo e inquietante, l’unico che metterà in difficoltà Giulia, in una bellissima scena di violento esercizio di potere. Claudia Genolini tratteggia con grinta e bravura una segretaria sarda implosiva e sottotraccia, prodiga di sorrisi per la Ceo, ma pronta a dirgliene dietro di tutti i colori. Molto efficace la scena con il direttore in cui rivela sordidamente la sua disponibilità a tradire la sua Ceo. Francesco Gabbrielli dà vita ad un comicissimo Neuro Manager aziendale toscano, molto nevrotico, effeminato e tutto incentrato sulla forma e l’immagine di se stesso. Matteo Milani è un romanissimo tecnico informatico e una specie di Toy Boy con cui Giulia si intrattiene spesso; anche lui apparentemente devoto, sarà pronto a tradire per fare carriera. La sua cafonaggine offre molte risate al pubblico. E poi c’è Marina Zanchi, attrice di grande esperienza, che qui interpreta l’orribile madre di Giulia in una scena a due che è un bellissimo duello emotivo, generazionale e recitativo. E’ l’unico spunto che suggerisce delle risposte alla rigida anaffettività della protagonista in un alternarsi di rivendicazioni e asperità. Lo spettacolo è un atto unico di un’ora e mezza, ma per gli attori è una vera maratona, sia per il ritmo scenico che per l’impegno attoriale che li tiene sempre su in registro alto, sostenuto, brillante, senza mai diventare esteriori o eccessivi. Spingono sul grottesco riuscendo a rimanere saldamente credibili. Tutta questa ricca materia è inserita in una bellissima scenografia di Lucia Nigri: un ufficio algido, tutto bianco, asettico, a suggerire la freddezza delle personalità che lo abitano e che nel bellissimo valzer del tradimento ballato da tutto il cast, in cui tutti volteranno le spalle a Giulia, fa vedere in trasparenza ombre minacciose che incombono su tutti. Anche nei bei costumi di Fabrizia Migliarotti si vede una grande cura, sia di stile (tutto in un blu d’ordinanza), che di eleganza. Le luci di Ettore Bianco sono certamente (assieme alle musiche) un altro elemento fortissimo dello spettacolo sottolineando le atmosfere ed esaltando le dinamiche dei personaggi e della storia. “Una Poltrona per Giulia” è l’esempio di come una regia sapiente riesca a potenziare un testo non facile rendendolo avvincente e significativo. Non è affatto Teatro Off nonostante il piccolo teatro in cui ha debuttato, e speriamo di vederlo nella prossima stagione in un teatro di circuito romano o in giro per l’Italia, perché uno spettacolo così merita una diffusione ben più ampia.
Ma nella stessa settimana, al Teatro Cometa Off, c’era l’altra regia di Cigliano: “Cantigola”.
“Cantigola” è un bellissimo monologo per attrice scritto e interpretato dalla vulcanica Rossana Colace. Quanto ci sia di autobiografico non ci è dato saperlo, ma il racconto che fa ci tiene inchiodati alle sedie per un’ora e ci fa commuovere e venire i brividi inaspettatamente, dopo averci rivertiti moltissimo. Rossana Colace racconta la sua Calabria (che sia calabrese l’abbiamo scoperto da Internet) attraverso gli occhi di una donna di oggi che ricorda la sua adolescenza a Tropea, tra provincialismi, mancanze culturali, noia, sogni e l’incombente presenza della ‘Ndrangheta (che però non viene mai nominata!). Ci porta dentro i colori, i sapori e i panorami di una terra stupenda, attraverso il viaggio iniziatico della protagonista Cantigola, nome che incrocia evidentemente Caligola e Antigone. E il richiamo è del tutto pertinente, perchè con la leggerezza di uno spettacolo performativo (fa almeno 15 personaggi diversi, balla e canta), ci trascina in un clima da tragedia greca, facendo un ponte esplicito e azzeccatissimo con la storia di Antigone. La protagonista cerca di ribellarsi all’intrusione della ‘Ndrangheta nella sua vita mettendo se stessa e la sua famiglia in serio pericolo, forte di un coraggio e di una incoscienza tipici dell’adolescenza, ma sarà costretta a fuggire dal suo paese, in cerca di futuro e speranza, rincorrendo i suoi sogni. C’è il suo amato e sfortunato fratello, la professoressa di greco, la madre, il padre, il parroco, il bullo di scuola, l’amichetta di banco, i paesani e il perfido Boss. E c’è Cantigola/Colace che ad ogni personaggio riesce a dare una personalità distinta e una leggerezza/profondità che restano impresse. La regia è fortemente presente sia nella concezione di spettacolo, che nella direzione dell’attrice: poteva essere uno spettacolo documentario, narrativamente distante, e invece c’è anima e corpo in ogni momento, con un dosaggio che fa scivolare via lo spettacolo come un’onda del mare di Tropea. L’allestimento è a dir poco minimale: una vecchia scatola di latta da cui emergono gli oggetti che scatenano i ricordi, e un mucchietto di sabbia calabrese da cui spuntano gli elementi più significativi: una copia di Antigone e gli oggetti del fratello di Cantigola. Tutto è ricco di idee, egregiamente rese dalla Colace. I continui cambi di personaggio, di location e di situazione sono scanditi da continui cambi di luce e l’effettistica sonora arricchisce la performance allineandola al cinema: sono stacchi/cambi scena che riusciamo a vedere anche fisicamente, nonostante la staticità del palcoscenico. Magia del teatro. Quando è “buon teatro”. Non ci si annoia mai e quando finisce si ha l’impressione che il tempo sia volato, e si vorrebbero conoscere altri aneddoti, su questa eroina epica moderna. Peccato che questo gioiellino non giri l’Italia, perché la storia è importante, eticamente rilevante ma non saccente, e attraverso le molte risate che ci fa fare, ci racconta una storia del Sud che farebbe sempre bene ascoltare.
Due spettacoli che ci hanno dato emozioni diverse ma piene, che ci hanno mostrato tanti talenti e tanto talento. Che dovrebbe arrivare a conoscenza del grande pubblico, se i grandi teatri volessero sostenere il buon teatro italiano.
“Cantigola” fino al 2 Febbraio al Teatro Cometa Off, Roma.
“Una Poltrona Per Giulia” fino al 16 febbraio al Teatro Tordinona, Roma.