Cos’è l’arte, se non uno dei primigeni istinti dell’essere umano? Non è un caso se, tra le prime testimonianze lasciate dai nostri antenati, troviamo statuette rudemente scolpite o pitture rupestri in grado di narrare storie ormai dimenticate. L’arte è parte indissolubile dell’essere umano, priva di ancoraggi verso il passato e con le ali spiegate verso il futuro, in cui l’evoluzione tecnologica ci conduce, di giorno in giorno, verso un domani a tratti misterioso e imprevedibile.
Più de la Vita, il documentario di Raffaella Rivi sul pioniere della videoarte Michele Sambin, contiene in sé tutto ciò. In primis perché supera la dimensione del documentario, abbracciando il docufilm e portando sullo schermo un qualcosa decisamente di più di un elenco di materiali d’archivio: un vero e proprio film testimonianza, in grado di travalicare i confini dello schermo, abbracciando al suo interno l’esplorazione pionieristica di Michele Sambin, visionario che ha visto nell’evoluzione tecnologica l’espansione delle illimitate possibilità artistiche. Così il presente del media cinema si fonde al futuro dell’arte di Sambin, in un rincorrersi di tematiche e di metatestualità.
Metatestualità che vede la sua rappresentazione anche nella presenza attiva di Sambin, interprete di se stesso, uno sguardo interno e al tempo stesso esterno da quella che è la sua decennale esperienza. L’occhio della ripresa di Raffaella Rivi riesce così a viaggiare, ponendosi in prima e in terza persona, portando lo spettatore in un viaggio spesso vicino all’artista, ma altre volte dentro l’artista, in un susseguirsi di cerchi narrativi in grado di trasformare il film in una spirale ascendente.
Spirale ascendente che coinvolge il ritmo stesso della narrazione, rendendo il documentario meno vicino al suo genere e più vicino a una elegante quanto bizzarra biografia, resa unica dalla presenza dell’artista, al tempo stesso oggetto, soggetto e spettatore. Un gioiello in grado di risaltare sulla corona del cinema italiano in questo 2019 e non solo.