I tipi di Chinaski confermano il loro fiuto per le biografie di musicisti controversi, in bilico tra autodistruzione e salvezza. “Come ho trovato Dio, lasciato i Korn, dato un calcio alle droghe e vissuto per raccontare la mia storia”, recita un esplicito e poco incoraggiante sottotitolo che pare concepito dalla zia di Paolo Brosio, ma, superato questo primo scoglio e i preconcetti del caso, il libro scorre con una certa scioltezza, sul filo di una narrazione di disarmante semplicità, accessibile e a suo modo efficace, che va dritta al sodo senza dilungarsi in languori proustiani (“Io facevo spesso lo stronzo e la trattavo di merda” e “la speranza finì nel cesso” sono giusto un paio di assaggi per indicare la collocazione stilistica): una tipica cittadina di provincia americana, una tipica famiglia americana, una tipica adolescenza americana a base di film horror, videogiochi, bulletti, fast food, stazioni di servizio, taccheggio, acne, alcol, droga, droga a bizzeffe, ancora droga, un quotidiano fatto di piccole vicende poco edificanti (o, per meglio dire, fatto e basta), con più ristagni e cadute che slanci, e infine – grazie al cielo – una chitarra elettrica e, dopo una sfilza di gruppi durati il tempo di un concerto, i Korn. Oltre ad aprire una finestra su un’esistenza dilaniata tra il delirio dei tour e delle dipendenze e un’affettività assai problematica, il libro offre al lettore anche un’opportunità di riflessione su enigmi di carattere etico e socio-antropologico: che vorrà mai dire ad esempio per un americano “spassarsela nello stile europeo”? Oppure, ancora, che cos’è la violenza per qualcuno che, dopo aver picchiato ripetutamente per anni la sua ragazza, percuotendola anche con uno skateboard, afferma candidamente di non essere un violento? Il romanzo di formazione di Welch ha per motore interno la costante ricerca di un antidoto alla noia e al dolore, di una salvezza (anzitutto, appunto, da se stesso, dalle sue debolezze). Ne risulta un ritratto onesto, a tratti perfino toccante per il contrasto tra il bordone di squallore e brutalità e qualche improvviso bagliore di tenerezza. E proprio in questa onestà di fondo, senza filtro, sta la sua forza e la sua capacità di coinvolgere il lettore in una vicenda altrimenti confinata all’interesse più o meno morboso dei fan del gruppo.
Salvami da me stesso, Brian “Head” Welch (Chinaski 2018)
Alessandro Hellmann