E’ di questi giorni la notizia che la Nuova Compagnia di Canto Popolare firmerà la colonna sonora de “La Passione”, il prossimo lavoro teatrale scritto e diretto da Marco Dentici, ispirato ad un opera poetica di Guido Oldani. Conversare con Marco Dentici, regista e scenografo tra i più originali della nostra scena artistica, è soprattutto l’occasione piacevole e preziosa per parlare con un uomo di cultura e di grande sensibilità che va ben oltre il significato di questa intervista. Merce rara di questi tempi.
Come è nata questa collaborazione con la Nuova Compagnia di Canto Popolare?
Ho sempre apprezzato la loro musica. Soprattutto amo la loro capacità di mescolare sonorità dell’area mediterranea attingendo alla tradizione con una chiave sempre molto originale. Non c’è un precedente fra di noi, solo una felice combinazione che ci ha fatto incontrare come spesso succede nel nostro mondo. Si tratta di empatie che si incontrano. Nello specifico, è stata la comune amicizia con Renato Marengo: quando mi ha parlato di loro, mi sono immediatamente reso conto che potevano essere i musicisti giusti per il mio testo teatrale, non tanto per avere da loro un semplice commento sonoro, bensì un tessuto musicaleinterpretativo, capace di narrare assieme alla recitazione degli attori.
In estrema sintesi potrei spiegarlo utilizzando il termine “asincronismo”: se, come dicevo, pensiamo alla musica non come semplice tappeto sonoro di commento, capiamo meglio che il suo apporto può assumere un valore distonico, dissonante rispetto al testo stesso. Un approccio in linea con l’idea di base di questo lavoro che racconta la tragedia umana della Passione del Cristo in modo dissonante rispetto alla tradizionale sequenzialità. Un elemento in più per i musicisti per evitare l’appiattimento su composizioni musicali scontate, legate ai canoni classici.
Quindi, più nel dettaglio, qual è la differenza della tua Passione rispetto alle numerose precedenti?
Sicuramente il fatto che si distacca dalla rappresentazione cristiana nel senso liturgico. È una Passione vista con uno sguardo laico, un drammatico viaggio che si conclude con un atto estremo e in una certa misura surreale. L’estremo sacrificio che assume valore simbolico e pedagogico anche per i non credenti. A ciò si pone in controcanto il personaggio del Passante che crede di aver trovato il suo baricentro esistenziale attraverso l’auto tutela automatizzata di apparecchiature elettroniche che gli consentono di comunicare, fotografare, riprendere, annotare, divulgare tutto ciò che gli accade davanti senza coglierne il significato. Uno come tanti, insomma, uno che vive nel brodo quotidiano della cosiddetta normalità, contrassegnata da una superficialità sempre più diffusa e che, proprio per questo, gli impedisce di fermarsi per una riflessione necessaria.
In questo spettacolo sei anche regista e scenografo. Quali elementi hai introdotto di novità rispetto al testo originale?
Sul piano scenografico lo spazio è suddiviso su due livelli: uno “reale” e l’atro virtuale. Questa disposizione scenica mi consente di ribaltare l’azione dello spazio live in quello virtuale, scombinando i rapporti figurali e realistici. Il testo originale è mio e la sua prima stesura risale a qualche anno fa. In quest’ultima, che ritengo definitiva, ho ampliato sia il ruolo della Vagabonda e sia quello del Passante. Ho sentito l’esigenza di delineare meglio i caratteri contrapposti di questi due personaggi. Del Passante ho già detto. Alla Vagabonda, nelle precedenti stesure era affidata prevalentemente un’azione mimica, gestuale, in contrappunto alla recitazione verbale delle strofe poetiche. In quest’ultima, il suo ruolo ha uno spessore maggiore avendole assegnato una sorta di mandato speciale, metaforico: la rappresentazione dell’Arte, quell’insieme senza volto e senza età, elemento salvifico del mondo. E’ lei la locomotiva del racconto. L’Arte, nelle sue più diverse espressioni è lo strumento che può sconfiggere la bruttezza e l’orrore dei comportamenti compresi quelli estremi e deliranti, per quanto in questi ultimi tempi sia stata abbastanza infiacchita. Insomma, questo è un lavoro che propone, almeno nelle intenzioni, più piani di lettura, ovviamente, l’efficacia del risultato dipenderà dalla nostra abilità e da quella degli interpreti.
Qualche nota in più sugli interpreti e sulla data del debutto?
Gli interpreti ancora non sono stati scelti. Lo spettacolo dovrebbe andare in scena nel 2017 al Teatro Vittorio Emanuele di Messina nel contesto di un Laboratorio produttivo organizzato dal teatro stesso.
Voglio farti un’ultima domanda che, da uomo di spettacolo, amo fare a tutti gli artisti che ho la fortuna di incontrare. Hai una carriera oramai molto lunga e articolata. Non ti sembra che attualmente si faccia molta confusione fra intrattenimento e arte?
Si, è una realtà. Oggi si consuma tutto in fretta. Il fatto è che in larghissima misura tutto ciò che è opera creativa, artistica, viene incanalato nella cosiddetta legge di mercato con forme più o meno esplicite. L’Arte può anche essere intrattenimento, ma l’intrattenimento difficilmente può essere Arte. L’intrattenimento è imparentato con l’effimero, l’Arte non ha scadenza. Agli artisti delle leggi di mercato non dovrebbe interessare nulla: dovrebbero semplicemente apparire come una sorta di idioti che vedono quello che gli altri non riescono a scorgere. Bisogna anche dire che la politica e i governi dovrebbero sostenere di più la cultura, è previsto dalla Costituzione. Invece per anni è stata relegata in fondo alla scala dei bisogni del nostro Paese Gli artisti sono isole, si difendono da soli con attività e iniziative individualistiche, ma questo non costituisce “sistema”. Il sostegno all’arte e alla cultura da parte dello Stato (da non confondere con il protezionismo o assistenzialismo statalista) dovrebbe essere un investimento mirato alla crescita e alla coscienza critica dei cittadini. L’arte e la cultura sono veicoli straordinari di sviluppo con riflessi anche nel settore economico: uno strumento da coadiuvare nella sua continua evoluzione. Se non offri questo t’infili nel tunnel della decadenza e in un breve arco di tempo ti ritrovi un paese massificato e impoverito.