Inizia oggi il mio racconto di cibo, annessi e connessi con i lettori di Gingermag e io che per pseudonimo mi sono scelta quello di Ginger for Breakfast, non potevo non accettare l’invito graditissimo a scrivere qui!
Per cominciare vi dico qualcosa di me. Cucino da sempre, fin da molto piccola, grazie ad una salda tradizione emiliana che mi ha allevata all’insegna del buon cibo. Si parte dagli intingoli di mia nonna e poi da quelli dei miei genitori, entrambi cuochi sopraffini, che mi hanno insegnato senza parole ad alleggerire la nostra cucina regionale non sempre adeguata ai nostri più sedentari tempi moderni, visto che “ciò che nutre il muratore uccide lo scrivano”, recita un saggio detto popolare.
Ad un certo punto il cibo è diventato anche il mio lavoro, è nata Ginger con le sue lezioni di cucina per italiani e stranieri, i suoi catering, i take away, le degustazioni, il tutto all’insegna dello studio, della ricerca delle cose buone, del cibo vero, quello che ha un profumo, un corpo e un sapore reale.
Cibo vero.
Sì, perché da qualche tempo mi chiedo come mai il nostro modo di mangiare subisca sempre più cambiamenti e contaminazioni poco felici senza che noi ce ne occupiamo seriamente.
Questo almeno mi dice la mia esperienza con i miei ospiti, amici e commensali.
Proprio adesso che di cibo si parla moltissimo, ma dire food è più di moda, è sempre più ostico afferrare il vero cibo, aldilà dei finger food, dei food contest, dei food blogger e dei food writer. Nulla tolgo a queste voci, anzi, ma sento impellente la necessità di semplificare questo mare magnum da grande abbuffata a tratti un po’ troppo patinata.
Un documentario molto ben fatto, “Così mangiavamo” di Stefania Aphel Barzini e Alessandra Acciai, (che potete trovare sul sito della Rai) mi ha convinta a mettere in ordine una serie di riflessioni che da tempo sono sparse nella mia mente e con cui mi confronto ogni volta che faccio la spesa e che cucino.
Cosa mangiamo, davvero, di vero? Cosa sappiamo di quello che mangiamo? E soprattutto, quanto ci importa di quello che mangiamo?
Siamo il popolo che più in assoluto si diletta a parlare di cibo perfino mentre lo assapora, abbiamo una tradizione centenaria (millenaria!) di piatti regionali e un territorio che ci fa dono della ricchezza senza prezzo di poter differenziare ogni nostro prodotto, eppure? Eppure noi italiani cuciniamo sempre meno e sempre peggio senza considerarlo un fatto spiacevole.
Guardiamo i grandi chef cucinare in tv, il che ci pare affascinante, ma se dobbiamo farlo noi quest’attività sembra perdere subito la sua magia riducendosi a un impegno per cui non si ha il tempo. Cucinare oggi è un’abilità che diventa più o meno interessante a seconda del glamour che le gira intorno, se no viene spesso ancora inteso come un lavoro da massaie grassotelle.
Che poi, se a cucinare è un uomo si scatena all’intorno una religiosa curiosità, se è una donna a farlo oltre a sembrarci normale, sotto sotto pensiamo che siamo fortunati a fare altro.
Prova ne sia il fatto che il grande rumor intorno allo chef system gira intorno a cuochi-uomini, le cuoche-donne allo stesso livello di notorietà, potere e ricchezza sono assai meno e meno note al grande pubblico.
Ma torniamo a noi e a quello che mangiamo.
Non trovate che proprio ai tempi della tracciabilità, dell’etichetta, della severa legislazione alimentare, sia così complesso essere certi della qualità di quello che finisce nei nostri piatti, sempre che abbia ancora un’importanza? La domanda mi si pone perché assai spesso parlo con persone che cercano di convincermi della mia pignoleria e che in fondo perché spendere di più se si può avere il pollo a 3 euro al kilo? Tanto è sempre pollo. Io non ci giurerei invece.
Reperire prodotti semplicemente buoni o freschi è in effetti più complesso di un tempo purtroppo, a meno di avere un mercato vicino casa e di disporre di pazienza e buona volontà, qualità indispensabili per scegliere il prodotto giusto. Ma cucinare forse comincia proprio lì, quando i fornelli sono ancora lontani. Può esserci un gran piacere in questa fase della preparazione, immaginando profumi e combinazioni originali e credo fermamente che sia sempre più importante riscoprirlo. Questo significa scegliere di promuovere la nostra cultura antica, preservare un sapere che pareva scontato e indistruttibile solo fino a un paio di generazioni fa.
Significa semplicemente mangiare sano. Il che ha un’allure quasi rivoluzionaria talvolta.
Quello che cerco di fare, ad esempio durante una lezione di cucina, è dimostrare che è possibile mangiare bene, sano e buono senza dover dedicare il proprio tempo solo a questo, senza essere chef stellati e senza particolari pretese, se non quella della bontà in senso lato.
Il cibo e la cucina di ogni giorno hanno bisogno di tornare patrimonio delle persone, tutto questo vedere e parlare di cibo lo ha tanto allontanato da noi, facendolo diventare roba da espertissimi del settore e relegando le nonne a depositarie di un tesoro demodè. Ed è un gran peccato. Perché certe conoscenze si perdono in fretta se non vengono praticate.
Il cibo è un’eccelsa forma di condensazione di cultura scritta e orale che si consuma assaporando.
E il nostro piatto del cuore è quasi sempre saldamente ancorato a una tradizione regionale, familiare, antica, oltre che naturalmente al momento storico in cui quella pietanza si inscrive; anche se non sappiamo cucinarlo sappiamo descriverne le vibrazioni che provoca e potremmo riconoscerne il profumo anche dopo secoli dall’ultimo assaggio.
Ovviamente la ricerca, l’innovazione e la tecnologia in cucina sono sacrosante e costituiscono la pionieristica evoluzione culturale di quello da cui siamo partiti. A patto che non ci si fossilizzi solo su questo e che ciò non diventi appannaggio di un’élite irraggiungibile, sia in termini di creatori sia di consumatori.
Quindi bisogna conoscere, essere curiosi, domandare, farsi raccontare e sperimentare. Senza accontentarsi.
Come mi disse l’inarrivabile e acutissima chef Anna Dente dell’Osteria di SanCesario – RM dopo uno dei pranzi migliori della mia vita, “…che io sarò pure ‘gnorante ma per culo nun me ce faccio pijà”.