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PETER GREENAWAY E IL FUTURO DEL CINEMA

Dove sono i “visionari” del cinema del nuovo millennio? Probabilmente nascosti in qualche angolo digitale della rete o forse proiettati in qualche area della creatività ancora inesplorata. Eppure ci sono stati momenti della storia del cinema dove il loro linguaggio ha avuto punte di inaspettata popolarità, cito solo qualche nome: Luis Buñuel, Federico Fellini, Stanley Kubrik, Terry Gilliam, Alejandro Jodorowsky. Ma oggi quale strade percorre la nuova estetica visionaria?

Lo scorso Giugno ho partecipato come musicista al MashRome Film Festival 2014 di Roma dove ho avuto modo ascoltare la lectio magistralis di Peter Greenaway (I misteri del giardino di Compton House, I racconti del cuscino), un regista che appunto ha fatto dell’elemento visionario il cardine della propria ricerca artistica e che di questa scuola è sicuramente l’erede più attivo e moderno.  Partendo dal presupposto che “il cinema come lo si intende comunemente è morto nel 1983 con l’invenzione del telecomando”, Greenaway ha voluto spostare l’attenzione sull’educazione visiva all’immagine citando una frase di Rembrandt: “solo perché hai occhi non vuol dire che puoi vedere”. E approfondendo questi concetti molto legati al potere decisionale che ha acquisito oggi il fruitore di cinema, non più figura passiva chiusa in una sala buia ma soggetto in grado di reinventarsi un proprio palinsesto personale e non solo, il regista inglese ha provato a delineare una serie di scenari futuri e di nuove possibilità che ci attendono.

Greenaway immagina una rivoluzione audiovisiva in cui il cinema sia libero dalla tirannia dell’inquadratura, del testo, degli attori e delle telecamere. E che comporti una totale ridiscussione degli spazi scenici dove si svolge la visione di un film. Greenaway ha già sperimentato in più situazioni un modo totalmente differente di fare cinema: un numero di schermi di diversa forma e dimensione che permettano una nuova esperienza sensoriale attraverso la multivisione di immagini multiple e quindi nuove tecniche di ripresa ed una nuova prospettiva del linguaggio filmico.

Passando alla pratica il regista ha quindi mostrato alcuni dei suoi lavori più sperimentali realizzati di recente: “The Last Supper” (una rivisitazione digitale de L’Ultima Cena di Leonardo), “Loop Suitcase” un divertissement costruito attorno alla tecnica del loop audiovideo ed infine due produzioni italiane: “Venaria Reali” ed il meraviglioso  “Triennale” in cui vengono messe in campo tutte le possibilità delle immagini multiple e della visione splittata su più schermi con differenti fonti sonore. Una produzione di particolare spettacolarità in cui, non poteva non cogliermi sul vivo, l’interazione superba tra l’estetica di Greenaway e la musica scritta da Marco Robino.

Alla fine dell’incontro è stato chiaro in tutta la sua evidenza che il potere dell’immaginazione non smetterà mai di stupirci. La capacità di guardare oltre e di superare preconcetti reinventando la realtà è forse il principale ruolo dell’arte visionaria.  Confidando, come dice lo stesso Greenaway, in un futuro dove “quello che accadrà sarà molto più entusiasmante di ciò che abbiamo visto finora”.

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