The Gran Budapest Hotel è una fiaba, ambientata a Zubrowka, luogo immaginario ma non immune alle guerre e ai dolori, compresi i disagi con la famiglia e i parenti serpenti.
E in questo mondo a tratti fatato, vive Monsieur Gustave, direttore del GRAND Budapest Hotel, attento al dettaglio e all’efficienza del suo personale, forbito e di parlare fiorito, uomo di mondo, casanova amante di attempate signore ricche, al tempo stesso dall’indole onesta e umana, generoso perfino.
Sotto la sua ala, il garzoncello dal nome esplicativo Zero (zero famiglia, zero esperienza e zero tutto) che da semplice usciere in prova diventa per caso fortuito il suo servitore fidato e trova l’amore di una dolce fanciulla, con “una voglia grande come il Messico” sul viso.
Proprio qui, in uno di quei treni già visti in Wes Anderson (cfr. Il treno del Darjerling, 2007) e a quanto pare teatri di scene cruciali nel cinema contemporaneo (vedi Nymphomaniac vol. 1 per gli spettatori italici più o meno inconsapevoli, vittime di un ignobile marketing che sfrutta la loro ignoranza), Monsieur Gustave rivela la sua natura, al tempo stesso sanguigna e sofisticata, natura addomesticata ma che gli costerà caro prezzo.
E così, in un viaggio alla ricerca del suo nuovo patrimonio ereditato da un’attempata amante morta assassinata, i parenti serpenti della vittima – naturalmente colpevoli – lo rincorrono attraverso rocambolesche avventure tra assassini assoldati (Wilhem Dafoe), figli ignobili (Adrien Brody), maggiordomi ricattati (Mathieu Amalric) e perfino un cameo di Lea Sedoux, colleghi di Gustave che lo tirano fuori da un impiccio sulla neve (Bill Murray, fantastico nella scena che aggancia reception in reception), i monaci con tanto di vittima, assassino e fuggiasco infiltrato, Edward Norton alle calcagna.
Poi, tanto altro: la cornice nella cornice come nei quadri fiamminghi (F. Murray Abrahame Jude Law, la donna sulla panchina), la scenografia tra pittura e film di animazione, una strizzatina d’occhi a Four Rooms di Anders, Tarantino / Rockwell / Rodriguez per lo spunto iniziale, una citazione a “Il monello” di Chaplin…
Il film è una delizia, più di Moonrise Kingdom e di altri di Anderson, ispirato all’opera dello scrittore Stefan Zweig, e’ talmente piacevole che il finale (tutt’altro che lieto) ci allieta ugualmente.
C’è ancora un timido barlume di generosità in questo mondo immondo latrina una volta noto come umanità.