Quando guardi Her sei di fronte ad uno schermo che proietta immagini di un mondo di un futuro lontano che poi tanto lontano non è.
Una Los Angeles bellissima fatta di grandi palazzi, panorami incredibili, case e uffici moderni, in cui –rapportati ai paesaggi-piccole persone organizzano attraverso grandi schermi il lavoro e la vita.
Schermi con i quali ci si confronta e si dialoga non più solo tra esseri umani.
Theodor installa sul suo pc il nuovo OS1, un sistema operativo vera e propria intelligenza artificiale. Un sistema operativo personalizzato e il suo si chiama Samantha. O è Samantha. Samantha è basata sull’intuito dice. Cresce attraverso l’esperienza e si evolve in ogni momento. Non è solo una voce in un pc, Samantha è la promessa di una coscienza.
Theodor è un uomo ultimamente -dice- non molto socievole divorziato e per lavoro scrive lettere d’amore per altre persone.
Samantha con Theodor vuole imparare tutto di tutto, divorare tutto, scoprire se stessa e la sua capacità di volere e nessuno sembra stupirsi quando Theodor esce e si muove per la città con un piccolo apparecchio con il quale mostra il mondo, i suoi affetti, la sua vita a Samantha.
Allora avere una persona accanto a sé o un OS non ha più differenza.
“Cosa si prova a essere vivi in quella stanza? Come si condivide la vita con qualcuno?” chiede Samantha “mi senti lì con te in questo momento?”
Spike Jonze, uno dei registi più visionari del nostro tempo, è famoso per la sua maniera originale e personalissima di raccontare il gioco a spirale e paradossale della realtà con la finzione, la sensibilità e l’identità umana, indagando sugli aspetti più difficili e psicotici dei sentimenti e dei rapporti. Her si aggiunge alla numerosa serie di film che trattano il tema della comunicazione, della condivisione affettiva e amorosa tra esseri umani e macchine, del confronto con replicanti afflitti forse dalle stesse angosce esistenziali.
Di veramente nuovo in Her c’è la semplicità con cui l’amore si esprime e si sviluppa durante il racconto. Jonze costruisce una storia che è un viaggio nei rapporti disumani tra Os e persone. Umani passeggeri di questo viaggio che scelgono di limitarsi ad essere passeggeri che non si avventureranno prima di tutto dentro se stessi. Che decidono di perdersi vivendo con superficialità e disagio qualsiasi sentimento. Vivi che non sanno più toccarsi, che si raccontano un’esistenza effimera dove la paura di conoscere e riconoscere se stessi è il vero schermo che impedisce qualsiasi relazione con i propri sentimenti prima ancora di condividerli con gli altri.
Allora sì che “innamorarsi è una pazzia, l’unica pazzia socialmente accettabile”.